Calendario Ordini

giovedì 15 dicembre 2011

Biologico:

Bio: vendita diretta e filiera corta, sono i presupposti perchè il sistema funzioni
                                       
Si chiama operazione “Gatto con gli stivali” e anche se evoca il mondo delle favole purtroppo è realtà: è il sequestro di 2.500 tonnellate di granaglie, farine e frutta fresca e di oltre 700mila tonnellate di altri prodotti alimentari, tutti spacciati falsamente per biologici. Il 10% del mercato nazionale di settore: impressionante per la vastità. È bene evidenziare che i prodotti in questione sono tutti importati dall’estero e che quindi i produttori bio italiani non ne sono per nulla responsabili. Tutt’al più essi sono vittime, dirette o indirette: da un lato perché volevano usare in buona fede quei prodotti per nutrire i propri animali o per trasformarli, dall’altro perché l’immagine di tutto il comparto ne esce danneggiata agli occhi del consumatore medio, di solito scarsamente informato e molto facile a farsi influenzare da luoghi comuni e leggende metropolitane.

Quali? «Il bio costa troppo e non si ha mai la certezza che sia veramente tale, ci sono certificazioni farlocche». «Il bio è una cosa da snob, da ricchi radical chic» e «come fanno “i forzati dell’hard discount” a permetterselo?» Aggiungeteci «la crisi», e che in Italia «se c’è di mezzo la burocrazia è sempre tutto un “magna magna”» e capirete che ci mancava soltanto il Gatto con gli stivali. A ben vedere però questo scandalo immane non è soltanto una pura iattura. Intanto perché il bio italiano non c’entra, e poi perché ci aiuta a riflettere meglio sul significato del biologico, un settore in continua e poderosa crescita. Non è tanto il caso di farne una questione di etichette, ma piuttosto di paradigmi e paradossi.

Tutte le volte che sorge un problema con il biologico io mi chiedo: ma quando è partita la follia per cui siamo arrivati al punto che è diventato necessario certificare come un’eccezione ciò che dovrebbe essere la norma? Coltivare, allevare, trasformare la natura in cibo senza aggiungere input esterni, chimici e a base di petrolio dovrebbe essere normale. È chi aggiunge fertilizzanti chimici, pesticidi, additivi, conservanti che dovrebbe dichiararlo, certificare e documentare la sua “anormalità”. È una questione di principio e non di poco conto, ma intanto ci rivela una triste verità: la norma non è più il cibo naturale o integrale, la norma del sistema alimentare globale oggi è un cibo in qualche modo alterato. Un cibo che, infatti, è diventato da agricoltura “convenzionale”: anche l’uso di questo termine la dice lunga. Chi vuole fare biologico non è uno “convenzionale”: è uno strano, senz’altro in minoranza e quindi deve sottoporsi a certificazioni e controlli. L’AIAB, associazione italiana per l’agricoltura biologica, mette giustamente in evidenza un dato che ci comunica bene questo ribaltamento della realtà, questo primo grande paradosso: in Italia da un lato abbiamo 47.000 aziende biologiche certificate che subiscono ogni anno 60.000 controlli di ispettori, nuclei antisofisticazione e chi più ne ha più ne metta. Dall’altro abbiamo invece oltre 700.000 aziende agricole “convenzionali” che di questi controlli in un anno ne subiscono meno di 40.000. Prima di tutto questi dati dovrebbero farci stare tranquilli quando compriamo biologico, perché non c’è nulla di più severamente controllato, ma mi chiedo (senza con questo voler cadere nell’errore opposto di demonizzare i “convenzionali”): tutto ciò non rischia di trasformarsi in una sorta di vessazione nei confronti di chi produce in armonia con la natura, come ha sempre fatto l’uomo prima che prendesse il sopravvento la follia agro-industriale?

Inoltre, questa specie di “ghettizzazione” del biologico ha avuto tutta una bella serie di effetti collaterali, che alla fine possono minare persino l’integrità stessa del concetto di biologico. Con la necessità di una certificazione, alla fine questo diventa un’etichetta, si svuota dei valori di cui è portatore – fertilità dei suoli, tutela ecologica dei sistemi naturali, e quindi della biodiversità, dei paesaggi, delle comunità rurali – entra nel sistema consumistico come una merce qualsiasi, dove l’unico metro di giudizio rimane il prezzo. Ma il biologico non può costare tanto meno: servono soldi per le certificazioni, per lavorare più accuratamente i terreni senza le scorciatoie chimiche, ci vogliono più impegno e più lavoro, magari producendo anche meno di quanto non si farebbe su di un terreno pompato e spremuto allo strenuo. Se conta solo il prezzo però queste considerazioni si perdono nel rumore di fondo dietro a una cifra esposta al mercato o al supermercato: vince inevitabilmente quella più bassa.

Il supermarket, ecco un altro bel paradosso. Non molto tempo fa ero in Germania, paese che europeo che ha il più grosso giro d’affari biologico. Nelle campagne appena fuori Berlino ho partecipato al raccolto di un produttore bio che incredibilmente, sotto i miei occhi, separava circa il 50% della sua produzione perché non conforme agli standard estetici richiesti dalla grande distribuzione: una carota storta, un cavolo con le foglie esterne un po’ ammaccate, una rapa troppo piccola. Un 50% di ottimi prodotti biologici che di solito finiscono nella compostiera, ma con cui, insieme ai giovani di Slow Food Germania, abbiamo nutrito gratis 2000 persone a Berlino.

Se il biologico diventa solo un’etichetta, allora il sistema agro-industriale, produttivo e distributivo, alla fine lo tritura. Partono le monocolture per il puro business (che, anche se biologiche, non sono così sostenibili in termini di biodiversità), si spreca come si spreca in modo “convenzionale”, il cibo si trasforma in commodity (che cosa erano i prodotti sequestrati dall’operazione Gatto con gli stivali? Commmodities, semplici merci, in quantità industriali). Si perdono di vista il fine nobile di queste produzioni e anche le loro utilità sociale ed ecologica. Tant’è vero che gli stessi appartenenti al movimento del biologico cominciano a distinguere tra coloro che ci credono davvero e i “convertiti”: quelli che l’hanno fatto per opportunità economica senza sposare realmente il modello di un’agricoltura in grado di cambiare il paradigma ormai “convenzionale”. Ovvero una nuova agricoltura ecologica e multifunzionale, che tutela i nostri beni comuni quali i terreni, la biodiversità, l’ambiente e i paesaggi.

Insomma, se il biologico non si accompagna alla filiera corta, alla vendita diretta, alle economie locali, la sua portata si riduce notevolmente e in più si rischiano le truffe. Tra l’altro le economie locali permettono di contenere i costi, e non è un caso che le forme alternative di distribuzione e vendita diretta in Europa siano state fortemente incrementate proprio dal movimento del biologico, che ha fatto grandi cose da questo punto di vista. Però appena si cresce di scala produttiva e distributiva si rischia di perdere di vista l’obiettivo. Lo scandalo appena occorso è lì a dimostrarlo: oltre 3000 tonnellate di alimenti importate da uno Stato all’altro non sono cibo locale, non sono agricoltura ecologica e multifunzionale, non sono filiera corta.

Ecco perché è più importante il paradigma, piuttosto che l’etichetta. Questa è utile nella misura in cui non mente, in cui racconta la produzione e i suoi valori, e da questo punto di vista forse il biologico deve ancora fare passi avanti, anche per quanto riguarda la certificazione. In un sistema come quello attuale la certificazione è purtroppo indispensabile appena si supera il livello della vendita diretta, basata su un rapporto di fiducia. Ma vanno tutelati i piccoli produttori: con le regole attuali, che sono le stesse anche per le medie e grandi aziende, la certificazione per loro è un grave costo in più, un carico burocratico che dopo 12 ore di lavoro nei campi non possono sbrigare da soli. Bisogna semplificare, permettere le certificazioni di gruppo (per associazioni e cooperative di piccoli produttori), introdurre sistemi di certificazione a garanzia partecipativa tra produttori e consumatori, senza terze parti, che sono già stati messi a punto e stanno danno ottimi risultati in Sud America.

Il Gatto con gli stivali rischia di farci parlare solo di etichette ma noi, per restare in tema di fiabe e cartoni animati, preferiamo parafrasare Jessica Rabbit: il biologico non è cattivo, è il sistema agro-industriale con la sua distribuzione che a volte lo disegnano così. Forse è necessario cambiare disegnatore e, anche in questo caso, come per ogni discorso inerente ciò che mangiamo, ricominciare tutto da due bellissime parole: cibo locale.

Carlo Petrini

da La Repubblica del 14 dicembre 2011

Nessun commento:

Posta un commento