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martedì 28 giugno 2011

Quando l’energia è solidale: l’esperimento dei Gas milanesi

Dal mondo lombardo dei gruppi di acquisto è nato il progetto di uno dei primi impianti di fotovoltaico finanziati dal basso, attraverso una cooperativa piemontese. I pannelli saranno costruiti sul tetto di una cascina storica del Parco Agricolo Sud

26 giugno, 2011
Quando l’energia è solidale: l’esperimento dei Gas milanesi

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di Isabella Fantigrossi

Che succede se il mondo dell’acquisto solidale incontra quello delle energie rinnovabili? Nasce il progetto del Gruppo Energia che ha, tra gli obiettivi principali, quello di realizzare entro settembre 2011 sul tetto della cascina Santa Brera di San Giuliano Milanese (Milano), all'interno del Parco Agricolo Sud, la prima minicentrale a fotovoltaico in Lombardia finanziata dal basso. Questo l'originale progetto immaginato dal Gruppo Energia, il gruppo nato dal mondo dei Gas lombardi: singoli privati - iscritti ai Gas ma non necessariamente tali - investono una piccola quota associandosi a una cooperativa che costruisce l'impianto fotovoltaico sul tetto della cascina. L'energia prodotta è utilizzata direttamente solo da Santa Brera. E quella in eccesso viene immessa in rete, cioè venduta al fornitore nazionale che la ridistribuisce. Così chi partecipa al progetto, anche se non si approvvigiona direttamente dell'energia prodotta dall'impianto, contribuisce a produrne di pulita e, dall’investimento iniziale, ottiene pure una piccola remunerazione. Con l'obiettivo finale di poter utilizzare proprio i kw del proprio fotovoltaico.

"Il Gruppo Energia è nato all’inizio del 2010", racconta Massimo Bedoni, uno dei promotori dell’iniziativa, "per ragionare su come produrre energia da fonti rinnovabili. E, fin dall’inizio, abbiamo pensato a come poter mettere in pratica le nostre idee. Ci sono venute subito in mente le cascine storiche del milanese, molte delle quali producono già per i gruppi di acquisto solidale carne, formaggi, frutta e verdura. Perché allora, abbiamo pensato, non farle diventare produttrici anche di energia?". Così i soci del Gruppo Energia hanno individuato, come luogo dove costruire l’impianto fotovoltaico, la cascina Santa Brera, un edificio privato di proprietà di Irene di Carpegna, che è già da molti anni fornitrice dei gruppi di acquisto della provincia.

Azionariato collettivo -  L’impianto fotovoltaico è finanziato collettivamente da chiunque voglia investire un piccolo importo, non in un qualsiasi prodotto finanziario, ma in un progetto concreto. "Chi vuole partecipare, si associa alla cooperativa Retenergie e versa un capitale che verrà poi remunerato sulla base del rendimento della produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile", spiega Bedoni. "Certo, alla fine si guadagna meno che investire in banca, ma di certo lo si fa per qualcosa in cui si crede". Quindi, l’impianto costruito è di proprietà dei soci della cooperativa. E l’energia prodotta dal fotovoltaico in parte viene venduta alla cascina, che soddisfa così, in modo pulito, i propri consumi. Il rimanente, invece, è immesso in rete.

I soci della cooperativa – Gli investitori sono sia provenienti dal mondo dei Gas milanesi che hanno ideato il meccanismo di azionariato diffuso per il fotovoltaico, sia sono singoli privati che vogliono partecipare al progetto. "Il beneficio dei soci è materiale, perché hanno una piccola remunerazione tra il 3 e il 5% del capitale iniziale investito", racconta Massimo Bedoni. Si partecipa con una quota minima di 500 euro fino a un massimo di 30mila. I soci che finanziano l’operazione, del costo iniziale di circa 100mila euro per un impianto da 29 kw, vengono ripagati anche dai contributi del Conto energia (leggi il testo del decreto del 4 marzo 2011 che introduce il IV Conto energia). La remunerazione è deliberata ogni anno dall’assemblea dei soci della cooperativa. "In più, i soci contribuiscono a produrre energia pulita". La stima è che si possano così evitare di produrre in 25 anni circa 400 mila kg di CO2.

La cascina Santa Brera – Il vantaggio per la cascina di San Giuliano Milanese è che, grazie all’impianto dei Gas, l'azienda può diventare autosufficiente dal punto di vista energetico. Inoltre, "prima di installare i pannelli fotovoltaici, bonifichiamo i 250 mq di tetto dell’edificio dall’eternit", spiega Bedoni. La cascina, inoltre, è diventata socia stessa della cooperativa.

La cooperativa – La cooperativa scelta dal Gruppo Energia è Retenergie, nata a Fossano (Cuneo) su iniziativa di Marco Mariano. L’idea alla base della cooperativa è proprio quella di produrre energia rinnovabile da impianti di produzione a basso impatto ambientale attraverso la forma dell'azionariato popolare. Trecento per ora sono i soci complessivi suddivisi in nodi regionali. Quello lombardo, guidato da Massimo Bedoni, è quello che si sta occupando del fotovoltaico a Santa Brera.

Il programma dei lavori – "Ora siamo in fase di autorizzazione", racconta Bedoni. "L’iter per avere il via libera è lungo perché la cascina è un bene storico – è del Seicento – protetto dalla Soprintendenza dei beni culturali. In più, serve anche l’ok paesaggistico del Parco Agricolo Sud. Se tutto va bene, comunque, i lavori dovrebbero cominciare a fine luglio per riuscire ad allacciare l’impianto a settembre 2011". Nel frattempo, è in atto la campagna di finanziamento. "Per ora siamo 40 soci, ma cerchiamo altri sostenitori".
Ma l’obiettivo del gruppo e della cooperativa non si ferma qui: "Intanto, vogliamo fare del fotovoltaico a Santa Brera un modello funzionante da replicare. E poi, vogliamo che il numero dei soci aumenti in modo da rendere Retenergie abbastanza grande da poter diventare anche fornitrice, e non solo produttrice, di energia pulita ai soci". "In questo modo, il circolo virtuoso si chiuderebbe: i soci potrebbero consumare l’energia prodotta da loro stessi. E si realizzerebbe davvero la missione mutualistica della cooperativa”

26 giugno 2011

lunedì 27 giugno 2011

Che cosa c’è nel piatto: il vetro, il topo, l’insetto. Verità e leggende sul cibo metropolitano. Scaricate il dossier

  Che cosa c'è nel piatto: è un dossier che spiega come funziona il sistema di allerta e di sicurezza  alimentare in Italia e in Europa. L'epidemia da Escherichia coli 0 104 che ha colpito un mese fa la Germania, come pure la vicenda della mozzarella  blu sono solo alcuni dei casi che il sistema di allerta ha dovuto affrontare.
Che cosa c'è nel piatto racconta le bufale divulgate in rete e sui giornali (latte pastorizzato 5 volte, hamburger che non ammuffiscono mai,  la favola dell’invasione del pomodoro cinesi, il pesce Pangasio inquinato), focalizza  l'attenzione  sulle false notizie pubblicate dai media (cancellata la legge sui cibi adulterati, etichetta di origine obbligatoria….) e sulle furberie inventate da alcuni produttori per fare business.
Un capitolo è dedicato  agli spot e ai messaggi pubblicitari ingannevoli firmati da grandi aziende come: Lazzaroni, Coca-Cola, Kilocal, Danacol … censurati dall’Antitrust e dal Giurì. Si tratta di sentenze che i giornali di solito non pubblicano per motivi di opportunità.
Che cosa c'è nel piatto è interattivo: molti paragrafi sono linkati a pagine del sito per gli approfondimenti, e i lettori possono raccontare le loro storie. Per farlo basta cliccare una delle tante postazioni indicate nelle pagine, scrivere il testo e spedire direttamente la mail.
Il dossier si può scaricare gratuitamente cliccando qui  oppure  dalla pagina di Facebook  curata da ilfattoalimentare.it..
Questo è il regalo della redazione ai 209 mila visitatori unici che nel primo anno de ilfattoalimentare.it. hanno sfogliato 940 mila pagine.
Venerdì 24 Giugno 2011

mercoledì 22 giugno 2011

Save & Grow: produrre di più con minori risorse. Si può?

21/06/2011 - Sloweb
In un mondo che vede la popolazione in continua crescita, la Fao ha recentemente annunciato una nuova iniziativa che permetterebbe di produrre maggiori quantità di cibo rispettando l’ambiente.

L'appello della Fao per un'intensificazione sostenibile della produzione, a oltre mezzo secolo dalla Rivoluzione verde degli anni '60, è contenuto nella pubblicazione Save and grow curata dalla Divisione Fao Produzione vegetale e protezione delle piante. Il nuovo approccio, rivolto ai contadini dei Paesi in via di sviluppo, dovrebbe aiutarli a economizzare sui costi di produzione e massimizzare le rese.

Si stima che la Rivoluzione verde abbia salvato dalla carestia un miliardo di persone, riuscendo tra il 1960 e il 2000 a produrre cibo sufficiente per una popolazione mondiale che è passata da 3 a 6 miliardi di persone. Tuttavia, l'attuale paradigma di produzione intensiva non riesce più a stare al passo con le sfide poste dal nuovo millennio.


L'approccio "produrre di più con meno" attinge in parte alle tecniche dell'agricoltura di conservazione, una serie di pratiche agronomiche che permettono una migliore gestione del suolo, limitando gli effetti negativi sulla sua composizione. Per fare questo essa promuove una lavorazione minima del terreno, facendo a meno dell'aratura profonda, per mantenere in modo permanente la copertura organica. I residui delle coltivazioni sono lasciati sui campi e si fanno ruotare le colture alternando quelle cerealicole con le leguminose che arricchiscono il terreno.
Tra le altre tecniche sviluppate dalla Fao e dai suoi partners nel corso degli ultimi anni e ora presentate nella pubblicazione, vi è l'irrigazione di precisione, per uno sfruttamento più efficente delle risorse idriche, e un impiego limitato dei fertilizzanti per raddoppiare i nutrienti assorbiti dalle piante. Questi metodi aiutano le colture ad adattarsi al cambiamento climatico e non solo permettono di produrre più cibo, ma contribuiscono anche a ridurre il fabbisogno di acqua del 30% e i costi energetici sino al 60%. In alcuni casi, come dimostrato di recente in Africa australe, si possono incrementare le rese di ben sei volte, mentre è certificato che i rendimenti dei coltivatori che hanno seguito queste tecniche in 57 Paesi a basso reddito sono aumentati di circa l'80%.

Scarica qui il riassunto di Save and grow:
Save-and-grow-flyer.pdf



Fonte:
www.aiol.it 


Alessia Pautasso
a.pautasso@slowfood.it 
 

mercoledì 15 giugno 2011

Albicocche ad abundantiam

10/06/2011 - Sloweb
L’evoluzione del caso legato alla diffusione del batterio E-coli non deve aver ancora del tutto tranquillizzato i consumatori, perché le verdure europee continuano ad avere prezzi molto bassi, in maniera generalizzata. Le insalate, soprattutto, hanno toccato minimi molto convenienti. Ogni nazione vende solo prodotti propri (evidenziandolo bene in etichetta) e gli unici vegetali che hanno tenuto i prezzi sono le patate - esattamente come avvenne ai tempi di Chernobyl - e la frutta, che pare aver patito meno la psicosi collettiva.
Restando in tema di frutta è un momento buono per le albicocche. Costano meno dell’anno passato perché c’è abbondanza: si va dai 2 euro al chilo per quelle più comuni fino a 4 euro per le eccellenze. La qualità media ora non è altissima, ma è più che accettabile. Se le trovate con qualche piccola crepa sulla buccia non evitatele: le abbondanti piogge dei giorni scorsi hanno creato questo inconveniente che però è soltanto di natura estetica e vi farà anche risparmiare qualcosa. Cercatele morbide e non dure, quindi ben mature. La pezzatura non incide molto sul gusto, con una pezzatura media si va sul sicuro, mentre il carotene che contengono in quantità sarà un ottimo pre-abbronzante per l’estate, se ci tenete.
Sono entrati in produzione tutti gli areali italiani, al Sud da qualche settimana e più recentemente anche al Nord: Emilia Romagna e Campania guidano la classifica di quantità prodotte. In Campania spiccano le varietà “Pellecchia” e “Cafona” e in Emilia Romagna le “Precoci Cremonini” e le “Reali d’Imola”. Queste ultime sono molto stimate e considerate migliori.
C’è anche un Presidio Slow Food, quello delle piccole albicocche di Valleggia nel savonese. Hanno la buccia sottile, di un delicato colore arancio picchiettato da puntini color mattone. Il loro aroma e il loro sapore sono molto più intensi del normale. Si cerca di salvarle dalla concorrenza dei frutti esteri e di altre regioni, e anche dopo le speculazioni edilizie che hanno colpito la zona tra Loano e Varazze lungo la costa causando l’espianto di molti frutteti storici. Ora si producono da Albissola a Vado Ligure e per lo più si tratta di piccole aziende che raccolgono e selezionano i frutti a mano. La loro stagione sta per iniziare e si protrarrà fino a metà luglio. Il prezzo sarà più alto, ma il valore che si portano addosso, insieme al gusto, lo è ancora di più.

Di Carlo Bogliotti
La rubrica Sabato al Mercato la trovi su La Stampa ogni sabato alla pagina delle previsioni del tempo


fonte: Slow Food

domenica 12 giugno 2011

In Italia si arresta la sindrome dello spopolamento degli alveari; forse merito dello stop ad alcuni insetticidi. Intervista al prof. Tapparo


Ci risiamo: come già avvenuto negli ultimi quattro anni, le stime effettuate sul 15% degli apicoltori americani parlano di una morìa di colonie di api attorno al 30% nella stagione invernale appena trascorsa. Un dato che preoccupa e tiene alto il dibattito sulla sindrome dello spopolamento degli alveari (in inglese Colony Collapse Disorder, CCD) ma che, al tempo stesso, suona come una conferma per chi attribuisce gran parte delle responsabilità all'utilizzo degli insetticidi neonicotinoidi nella concia dei semi del mais (dove la pratica è stata sospesa - come in Italia - il fenomeno non ha  più assunto le dimensioni delle gravi crisi degli anni scorsi).
Lo studio statunitense è stato condotto dallo US Department of Agriculture insieme con gli Apiary Inspectors of America. Sono stati intervistati oltre 5.500 apicoltori che curano circa il 15% del totale degli alveari del paese, presso i quali si contano circa 2,68 milioni di colonie. Il 31% degli interrogati ha risposto di aver perso, tra ottobre 2010 e aprile 2011, una parte molto rilevante delle colonie (con percentuali che arrivano al 60%) senza aver trovato api morte nell'alveare, ovvero di aver riscontrato la sindrome da spopolamento (CCD). Gli altri alveari hanno avuto perdite minori pari a circa il 30% delle colonie. Di norma si considera accettabile una perdita del 13% di colonie, ma oltre sei apicoltori su dieci hanno affermato di averne perse molte di più.
Il dato appare ancora più drammatico se confrontato con quelli degli ultimi anni: nell'inverno 2007/2008 la perdita è stata, in media, del 32%, nel 2008/2009 del 29% e nel 2009/2010 del 34%. La sostanziale stabilità, hanno commentato gli autori, è un'assai magra consolazione: dimostra che la situazione non si è ulteriormente aggravata, ma anche che la soluzione del problema è ben lontana.
Sulle cause delle stragi di api negli ultimi anni sono state chiamate in causa moltissime ipotesi: cambiamenti climatici, variazioni genetiche nei parassiti, nei batteri, nei funghi che colpiscono le api, comparsa di nuovi virus, campi magnetici, stress delle api causato dagli spostamenti, sfasamenti ormonali e molto altro ancora.
Ma l'unica idea confortata dai fatti è quella proposta innanzitutto da ricercatori italiani, ossia l'avvento dei neonicotinoidi nella concia dei semi e, in particolare, di quelli del mais.
Per capire a che punto è l'Italia, Ilfattoalimentare.it ha posto alcune domande ad Andrea Tapparo, associato di chimica dell'Università di Padova e autore di importanti studi sull'argomento, due dei quali di imminente pubblicazione.

Continua su:    Il fatto alimentare. 

domenica 5 giugno 2011

Etichetta di origine: in Inghilterra non ci sono misteri......e in Italia??

Etichetta di origine: in Inghilterra non ci sono misteri, insaccati, cibi pronti, formaggi e latticini indicano sempre la provenienza

Nel Regno Unito la maggior parte dei prodotti a base di carne e latticini forniscono informazioni sulla provenienza degli ingredienti o il luogo di produzione, ma si può migliorare: è il risultato in una nuova indagine riportato dal magazine on line Farmers Guardian.
La ricerca, commissionata dal Defra (Department for Environment, Food and Rural Affairs, cioè l’equivalente del nostro ministero dell’Agricoltura), è stato effettuata nel mese di aprile 2011, su oltre 500 alimenti a base di carne e prodotti lattiero-caseari acquistati on-line e nei punti vendita da grandi supermercati, negozi e discount.
È la prima valutazione della presenza del paese d'origine in etichetta da quando l'industria alimentare ha adottato, lo scorso novembre, delle norme volontarie per fornire ai consumatori informazioni più chiare.
Dei 335 campioni di alimenti a base di carne, anche trasformata (salumi, pasticci, polpettoni), e dei rimanenti 182 prodotti lattiero-caseari (latte, panna, burro, formaggio) quasi il 60 per cento è stato commercializzato con il nome o brand del rivenditore, gli altri sono articoli di marca.
Tutti i campioni di burro riportano in etichetta o la provenienza del latte o il luogo di lavorazione dello stesso o entrambi, e il 77 per cento di formaggio dichiara la provenienza del latte o del luogo di lavorazione.
L’86 per cento dei campioni di latte hanno una qualche forma di etichettatura di origine: o il luogo di provenienza (50%) o di lavorazione (poco più di un terzo dei prodotti).
Tuttavia, un terzo dei campioni di panna non presenta alcuna informazione sull’origine, e un solo campione su sei riporta la zona di provenienza del latte, mentre le metà il luogo di lavorazione dello stesso.
Tutti i rivenditori di latte con un proprio marchio dichiarano l’origine, e lo stesso vale per il 59% del latte di marca.
Pancetta, salsicce e altri prodotti a base di carne: l’82% dichiara in qualche modo l’origine, e in particolare il 67% fornire informazioni sulla provenienza degli ingredienti a base di carne, e il 15% il luogo di fabbricazione. Quasi uno su cinque non presenta alcuna indicazione di origine.
Circa 76 per cento dei prodotti a base di carne -  come pasticci e piatti pronti – ha un qualche tipo di indicazione di provenienza.
Il Ministro per l’alimentazione e l’agricoltura Jim Paice ha dichiarato che l'etichettatura trasparente degli alimenti onesto era una “priorità”. «I consumatori vogliono vederci chiaro, e desiderano etichette oneste che permettano loro di compiere una scelta consapevole in merito alla qualità e all’origine del cibo che mettono nel piatto. Hanno il diritto di credere che se un’etichetta dice o sottintende che un prodotto è inglese, sia davvero inglese.
L'industria alimentare ha già preso l’iniziativa, ma i risultati della ricerca dimostrano che esiste ancora spazio per migliorare. Lavoreremo con il settore della ristorazione per assicurarsi che anch’esso sia adeguatamente informato».
Mariateresa Truncellito
foto: Photos.com
martedì 31 maggio 2011