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martedì 19 ottobre 2010

CIBO SPRECATO: editoriale di Roberto Burdese (Presidente Slow Food Italia) sulla rivista VALORI - ottobre 2010




C’È UNA GRANDE (E SCOMODISSIMA) VERITÀ, quando si parla di cibo sprecato nell’opulento mondo occidentale: il problema vero è che non siamo in presenza di un difetto del sistema, che come tale si può analizzare e, almeno in parte, correggere: lo spreco è parte del sistema, è ciò che gli permette di funzionare a quella velocità e con quel tipo di guadagni.
Il moderno sistema di produzione e distribuzione del cibo, basato su logiche e metodi di tipo industriale e orientato principalmente al mercato, è un sistema lineare, ovvero un sistema che non riutilizza gli scarti della produzione e rinuncia a molte produzioni complementari e accessorie, sia perché non ha interesse a portarle avanti, sia perché spesso, per via delle stesse modalità di produzione, alcuni scarti non possono essere valorizzati o non sono più utilizzabili (si pensi al letame degli allevamenti intensivi, ridotto ormai
a scoria contaminante). Ma tutta questa velocità ha un prezzo in termini di spreco: di energia, di risorse, di prodotto stesso.
L’agricoltura ecologica con i suoi sistemi ideali di distribuzione (la vendita diretta e di prossimità) è invece un sistema integrato. Ovvero tende a riusare scarti e sottoprodotti per altre fasi della produzione o per avviare nuove produzioni: in questo modo incide meno sulle risorse planetarie e abbassa i costi di produzione, oltre a quelli ambientali. Certamente ha ritmi meno intensi e consente guadagni ragionevoli, ma mai straordinari e rapidi.
 
I due tipi di agricoltura e di distribuzione fanno riferimento a due opposti tipi di consumatore. Il primo ha bisogno (di nuovo non è un difetto del sistema, ma una condizione per il suo buon funzionamento) di un consumatore distratto, poco consapevole, poco impegnato e certamente non un buongustaio: che non sappia distinguere i prodotti di qualità da quelli addirittura dannosi per la salute, sua o del Pianeta, che non si ponga troppe domande e che preferisca, come un automa, il prodotto a prezzo più basso, senza rendersi conto
che produrre cibo a “buon mercato” ha costi altissimi (in termini sociali, ambientali, di qualità e di futuro), che non paghiamo all’atto dell’acquisto, ma che stiamo già pagando nei fatti.
 
Il secondo ha bisogno di un consumatore che si senta parte del processo di produzione e che scelga di supportarlo e indirizzarlo; un consumatore che cerchi di vivere in coerenza con le proprie convinzioni e che sappia apprezzare il piacere del buon cibo, anche perché consapevole della relazione con la sua salute, quella dei suoi cari, quella dell’ambiente.
Un consumatore, cosa non secondaria, che sa ancora cucinare, tanto da non doversi accontentare dei cibi di quarta gamma o delle preparazioni industriali. E che può acquistare prodotti apparentemente minori (come i tagli considerati meno nobili delle carni), perché a casa sarà in grado di ricavarne piatti eccellenti.
Ecco perché informare ed educare il consumatore è l’unico modo di provare a correggere il sistema dell’agroindustria: su questo fronte l’associazione Slow Food è costantemente impegnata, con le attività e i progetti delle sue 300 “condotte” (coordinamenti locali, ndr) in tutta Italia. E con grandi momenti collettivi. A partire dal Salone del gusto e da Terra madre, (21-25 ottobre a Torino), dove si discuterà del futuro del cibo ma si imparerà anche, dai produttori e dai cuochi, ciò che ognuno di noi può fare tutti i giorni. 


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