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martedì 10 gennaio 2012

Pomodori marocchini, banane peruviane, carote danesi. Il biologico che arriva da lontano è così vantaggioso?


Sabato sono andata a fare la spesa nel solito supermercato e nello scegliere la frutta e la verdura la mia attenzione si è concentrata sulla provenienza. Finita l’abbuffata di “primizie” per la tavola delle feste, con stranezze ortofrutticole di ogni genere, di ogni nazionalità e stagionalità, nel banco riservato agli ortaggi bio ho scoperto - con una certa sorpresa - peperoni e pomodori arrivati dal Marocco, carote dalla Danimarca e banane da Perù.
Ma come, mi sono chiesta, biologico dovrebbe fare rima – almeno nella nostra percezione, se non nella lettera della legge che disciplina il settore - con stagionalità, territorio locale, piccoli produttori, oltre che con l'assenza di pesticidi e controlli da parte di enti certificatori che garantiscono il rispetto delle normative sull’agricoltura organica?
Quanto sono coerenti con l’idea di ecologia e sostenibilità ortaggi che hanno attraversato l’Europa da nord a sud o che arrivano dal nord Africa fino a Milano? E che dire delle banane bio che hanno addirittura superato l’oceano?
In realtà, per essere fedele ai principi ispiratori dell’agricoltura organica, chi preferisce acquistare prodotti bio dovrebbe semplicemente rinunciare a mangiare pomodori a gennaio e portare in tavola broccoli, cavolfiori e finocchi. Senza farsi allettare da verdure proprie della bella stagione che arrivano da molto lontano.
Peccatuccio veniale? Può darsi: da noi il bio, pure in crescita negli ultimi anni di pari passo con una maggiore consapevolezza verso le tematiche ambientali, resta un settore di nicchia. Non così altrove, però, dove è in esplosione. Nei paesi anglosassoni, per esempio, esiste la grande catena di supermercati Whole Foods, leader mondiale del commercio al dettaglio nel settore, con oltre 310 punti vendita in Usa, Canada e Regno Unito.
Supermercati davvero spettacolari, per la qualità e l’abbondanza dei prodotti freschi. Con scelte dei generi sugli scaffali molto rigorose: a chi scrive, per esempio, è capitato di sentirsi dire che «Whole Foods non vende integratori per la salute che contengono ingredienti ricavati da specie animali a rischio di estinzione». E allora: che succede dove il bio è un settore "pesante" nella borsa della spesa dei consumatori?
Qualche giorno fa, David Agren in un articolo sul New York Times del 30 dicembre, ha fatto ponderate riflessioni sul tema del boom del biologico e la coerenza con i principi ispiratori, intitolato “L’agricoltura bio forse sta perdendo di vista i suoi ideali”.
Il giornalista parte proprio dai pomodori bio, il prodotto che forse più di altri fa pensare all’estate, al sole, al caldo, ma che ormai siamo abituati a trovare in ogni stagione. Il problema è che a gennaio nei supermercati americani i pomodori, i peperoni e il basilico certificati come bio dal Dipartimento dell’agricoltura spesso arrivano dal deserto messicano e sono coltivati con sistemi di irrigazione intensiva.
I coltivatori della Baja California, cuore dell’export bio, descrivono la loro fatica tra i cactus come “piantumare la spiaggia”. Per dare un’idea dei numeri, la cooperativa Del Cabo ogni giorno manda negli Usa  sette tonnellate e mezzo di pomodori e basilico con aerei e camion, per soddisfare la domanda di prodotti bio in ogni stagione dell’anno. 
Insomma: anche se l’etichetta dice “bio”, il concetto di prodotto non solo privo di sostanze chimiche, ma anche cresciuto localmente da piccoli produttori e nel rispetto dell’ambiente, è un po’ perso. Paradossalmente proprio perché il bio ha sempre più successo tra gli americani: l'enorme aumento della domanda di alimenti più sani o meno contaminati, che oltretutto non tiene conto della stagionalità, sta facendo crescere sì l'offerta, ma a scapito di quelli che dovrebbero essere i postulati dell'agricoltura organica, per sua natura "piccola". 
Così, in Messico - insieme al Cile e all'Argentina il principale fornitore per il mercato bio Usa -  la crescita esplosiva della coltivazione di pomodori biologici sta mettendo a rischio la falda acquifera. In alcune zone, i pozzi sono a secco e questo vuol dire che i piccoli coltivatori non possono irrigare i raccolti.
Non solo: gli stessi pomodori finiscono in una catena distributiva globale per arrivare fino a New York, ma anche a Dubai, producendo emissioni che contribuiscono non poco al riscaldamento globale del pianeta.
Secondo Frederick L. Kirschenmann, del Leopold Center for Sustainable Agriculturedell’Università dell’Iowa, «i consumatori devono dubitare anche di fronte all’etichetta ‘bio’ perché di per sé non è sufficiente per essere davvero informati». Alcuni grandi marchi qualificano come bio anche prodotti ottenuti con pratiche che sono dannose per l’ambiente, come la monocoltura, che impoverisce i suoli, o, appunto, l’ipersfruttamento delle risorse locali di acqua.
Per potersi fregiare del marchio biologico del Dipartimento dell'Agricoltura, le aziende agricole negli Stati Uniti e all'estero devono essere conformi a una lunga lista di standard che, per esempio, proibiscono l'uso di fertilizzanti sintetici, pesticidi e fitormoni. Ma sono pochi i requisiti che riguardano la sostenibilità ambientale, anche se la legge (che risale al 1990) ha previsto  standard che dovrebbero proprio promuovere l’equilibrio ecologico, la biodiversità e la salvaguardia della ricchezza dei suoli e delle risorse idriche.
Gli esperti ritengono che in genere le aziende agricole bio tendono a essere meno dannose per l'ambiente rispetto a quelle convenzionali. Ma se nel passato «agricoltura biologica e agricoltura sostenibile coincidevano, ora non è sempre così», ha detto al New York Times Michael Bomford, ricercatore della Kentucky State University. Aggiungendo che il boom dell’agricoltura bio sta creando problemi anche alle falde acquifere della California.
Qualche ripensamento è già in atto: per esempio, Krav, il più importante organismo svedese di certificazione bio, concede il marchio solo se i prodotti sono coltivati in serre utilizzano almeno l’80 % di energia da fonti rinnovabili. E l'anno scorso il Consiglio nazionale per il settore bio del Dipartimento dell'Agricoltura ha rivisto la normativa, stabilendo che il latte può essere certificato solo se le vacche sono almeno in parte alimentate in pascoli aperti e non solo nei recinti.
Come è ovvio però, ogni tentativo di precisare meglio la definizione di “biologico” comporta inevitabili tira e molla tra agricoltori, produttori di generi alimentari, supermercati e ambientalisti. Così, per esempio, secondo Miles McEvoy, capo del Programma nazionale biologico del Dipartimento dell’agricoltura, «è difficile stabilire a priori quale sia il livello sostenibile di sfruttamento di una falda acquifera per una singola azienda, perché l’ipersfruttamento è comunque il risultato dell’utilizzo combinato di più produttori».
Mentre una volta l'ideale era mangiare solo prodotti locali e di stagione, oggi i consumatori che acquistano gli alimenti bio nelle grandi catene di supermercati americane si aspettano di trovare pomodori a dicembre e sono molto sensibili ai prezzi. Due fattori che incrementano le importazioni. Poche aree degli Stati Uniti possono produrre bio senza ricorrere a serre ad alto consumo energetico. Quanto al costo della manodopera, se un messicano di Baja California prende 10 dollari al giorno per raccogliere pomodori, un raccoglitore della Florida in alta stagione può arrivare a 80 dollari.
Molti coltivatori attribuiscono la scarsità d’acqua allo sviluppo turistico (alberghi e campi da golf), e in effetti  questo è stato uno dei maggiori problemi per le zone costiere del Messico. Ma anche l'agricoltura comporta un dispendio significativo di risorse. Per esempio, secondo uno studio durato un anno ad Ojos Negros, un'area del nord della Baja California, il boom delle piantagioni di cipolle bio destinate all’esportazione, cominciato un decennio fa, ha abbassato la falda acquifera di circa 40 cm all’anno.
La logistica nell’ottenere acqua e trasportare grandi volumi di prodotti deperibili favorisce inevitabilmente le grandi aziende agricole. E mentre per i produttori bio tradizionali frutta e verdura dalla forma insolita o con macchie sono solo varianti della natura, i lavoratori delle aziende agricole su vasta scala hanno ricevuto istruzioni di scartare i pomodori che non rispettano la forma, le dimensioni e le caratteristiche estetiche preferite dai clienti di Whole Foods. Questi prodotti di “seconda scelta” finiscono poi sui mercati locali.
Ma, allora, ha ancora senso parlare di frutta & verdura bio?

Mariateresa Truncellito
foto: Photos.com
Martedì 10 Gennaio 2012

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