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mercoledì 21 dicembre 2011

Obesità e malnutrizione nei bambini vanno oggi di pari passo

21/12/2011


Un pianeta in cui 36 milioni di persone ogni anno muoiono di fame nelle aree più povere, mentre nelle zone più ricche una persona su dieci è obesa, è un mondo che non guarda con interesse al proprio futuro. Questo argomento è stato oggetto di discussione durante il workshop “L’importanza di una corretta alimentazione nell’infanzia”, organizzato all’interno del 3rd Forum Internazionale dell'Alimentazione del Barilla Center for Food & Nutrition. Oggi, quando si parla di malnutrizione, non ci si riferisce più solamente al cosiddetto problema della sottonutrizione, ma anche al problema del sovrappeso e dell’obesità. Perché se tanti mangiano troppo poco, moltissimi mangiano troppo, o meglio “mangiano male e in modo non equilibrato” e i dati più allarmanti si riferiscono all’universo dei bambini. Secondo le stime dell’International Obesity TaskForce, i bambini in età scolare obesi o in sovrappeso nel mondo sono 155 milioni, cioè uno su dieci, ma allo stesso tempo 148 milioni di bimbi sotto i 5 anni sono sottopeso e si trovano prevalentemente nei Paesi in via di sviluppo. In molti Paesi il sovrappeso è diventato un problema di primo piano e solo parlando della nostra penisola, i dati registrano un fenomeno in costante crescita. Complessivamente in Italia si stimano oltre un milione e centomila bambini tra i sei e gli undici anni con problemi di obesità e sovrappeso: più di un bambino su tre. Il dato, a prima vista sconvolgente, potrebbe spiegarsi con l’elevata diffusione di errate abitudini alimentari. Tra queste la consuetudine a saltare la colazione e lo scarso consumo di frutta e verdura tra i giovanissimi. Anche i dati sull’attività fisica sono poco confortanti: solo un bambino su 10 fa attività sportiva in modo adeguato. Accanto all’emergenza obesità si affianca però la persistenza di denutrizione e malnutrizione in larga parte della popolazione infantile mondiale, concentrata principalmente nei Paesi in via di sviluppo ma anche, fatto che può sembrare sorprendente, anche in quei Paesi che hanno avuto una rapidissimo sviluppo, come ad l’India. Con "malnutrizione" si intende uno squilibrio - una carenza o un eccesso - nell'assunzione di nutrienti e altri fattori necessari per una vita sana e si può manifestare come denutrizione, carenza di vitamine o minerali, o sovralimentazione. La malnutrizione non va confusa con la semplice scarsità di cibo (ossia con la denutrizione), ma è la combinazione di vari fattori: insufficienza di proteine, grassi essenziali e micronutrienti sommata alla frequenza di malattie debilitanti e infezioni. Tale insufficienza ha delle serie conseguenze sul successivo sviluppo del bambino, sia da un punto di vista fisico sia da un punto di vista cognitivo, indebolendo progressivamente la struttura sociale del Paese. Nell'ultimo secolo, sono stati compiuti notevoli progressi al fine di aumentare la quantità e qualità della produzione alimentare mondiale e migliorare lo stato nutrizionale delle popolazioni. Tuttavia, l'accesso ad approvvigionamenti sufficienti di alimenti vari e di buona qualità resta un problema grave per molti Paesi anche là dove, a livello nazionale, la produzione alimentare sia adeguata. In tutti i Paesi, certe forme di fame e malnutrizione continuano ad esistere. 


giovedì 15 dicembre 2011

Biologico:

Bio: vendita diretta e filiera corta, sono i presupposti perchè il sistema funzioni
                                       
Si chiama operazione “Gatto con gli stivali” e anche se evoca il mondo delle favole purtroppo è realtà: è il sequestro di 2.500 tonnellate di granaglie, farine e frutta fresca e di oltre 700mila tonnellate di altri prodotti alimentari, tutti spacciati falsamente per biologici. Il 10% del mercato nazionale di settore: impressionante per la vastità. È bene evidenziare che i prodotti in questione sono tutti importati dall’estero e che quindi i produttori bio italiani non ne sono per nulla responsabili. Tutt’al più essi sono vittime, dirette o indirette: da un lato perché volevano usare in buona fede quei prodotti per nutrire i propri animali o per trasformarli, dall’altro perché l’immagine di tutto il comparto ne esce danneggiata agli occhi del consumatore medio, di solito scarsamente informato e molto facile a farsi influenzare da luoghi comuni e leggende metropolitane.

Quali? «Il bio costa troppo e non si ha mai la certezza che sia veramente tale, ci sono certificazioni farlocche». «Il bio è una cosa da snob, da ricchi radical chic» e «come fanno “i forzati dell’hard discount” a permetterselo?» Aggiungeteci «la crisi», e che in Italia «se c’è di mezzo la burocrazia è sempre tutto un “magna magna”» e capirete che ci mancava soltanto il Gatto con gli stivali. A ben vedere però questo scandalo immane non è soltanto una pura iattura. Intanto perché il bio italiano non c’entra, e poi perché ci aiuta a riflettere meglio sul significato del biologico, un settore in continua e poderosa crescita. Non è tanto il caso di farne una questione di etichette, ma piuttosto di paradigmi e paradossi.

Tutte le volte che sorge un problema con il biologico io mi chiedo: ma quando è partita la follia per cui siamo arrivati al punto che è diventato necessario certificare come un’eccezione ciò che dovrebbe essere la norma? Coltivare, allevare, trasformare la natura in cibo senza aggiungere input esterni, chimici e a base di petrolio dovrebbe essere normale. È chi aggiunge fertilizzanti chimici, pesticidi, additivi, conservanti che dovrebbe dichiararlo, certificare e documentare la sua “anormalità”. È una questione di principio e non di poco conto, ma intanto ci rivela una triste verità: la norma non è più il cibo naturale o integrale, la norma del sistema alimentare globale oggi è un cibo in qualche modo alterato. Un cibo che, infatti, è diventato da agricoltura “convenzionale”: anche l’uso di questo termine la dice lunga. Chi vuole fare biologico non è uno “convenzionale”: è uno strano, senz’altro in minoranza e quindi deve sottoporsi a certificazioni e controlli. L’AIAB, associazione italiana per l’agricoltura biologica, mette giustamente in evidenza un dato che ci comunica bene questo ribaltamento della realtà, questo primo grande paradosso: in Italia da un lato abbiamo 47.000 aziende biologiche certificate che subiscono ogni anno 60.000 controlli di ispettori, nuclei antisofisticazione e chi più ne ha più ne metta. Dall’altro abbiamo invece oltre 700.000 aziende agricole “convenzionali” che di questi controlli in un anno ne subiscono meno di 40.000. Prima di tutto questi dati dovrebbero farci stare tranquilli quando compriamo biologico, perché non c’è nulla di più severamente controllato, ma mi chiedo (senza con questo voler cadere nell’errore opposto di demonizzare i “convenzionali”): tutto ciò non rischia di trasformarsi in una sorta di vessazione nei confronti di chi produce in armonia con la natura, come ha sempre fatto l’uomo prima che prendesse il sopravvento la follia agro-industriale?

Inoltre, questa specie di “ghettizzazione” del biologico ha avuto tutta una bella serie di effetti collaterali, che alla fine possono minare persino l’integrità stessa del concetto di biologico. Con la necessità di una certificazione, alla fine questo diventa un’etichetta, si svuota dei valori di cui è portatore – fertilità dei suoli, tutela ecologica dei sistemi naturali, e quindi della biodiversità, dei paesaggi, delle comunità rurali – entra nel sistema consumistico come una merce qualsiasi, dove l’unico metro di giudizio rimane il prezzo. Ma il biologico non può costare tanto meno: servono soldi per le certificazioni, per lavorare più accuratamente i terreni senza le scorciatoie chimiche, ci vogliono più impegno e più lavoro, magari producendo anche meno di quanto non si farebbe su di un terreno pompato e spremuto allo strenuo. Se conta solo il prezzo però queste considerazioni si perdono nel rumore di fondo dietro a una cifra esposta al mercato o al supermercato: vince inevitabilmente quella più bassa.

Il supermarket, ecco un altro bel paradosso. Non molto tempo fa ero in Germania, paese che europeo che ha il più grosso giro d’affari biologico. Nelle campagne appena fuori Berlino ho partecipato al raccolto di un produttore bio che incredibilmente, sotto i miei occhi, separava circa il 50% della sua produzione perché non conforme agli standard estetici richiesti dalla grande distribuzione: una carota storta, un cavolo con le foglie esterne un po’ ammaccate, una rapa troppo piccola. Un 50% di ottimi prodotti biologici che di solito finiscono nella compostiera, ma con cui, insieme ai giovani di Slow Food Germania, abbiamo nutrito gratis 2000 persone a Berlino.

Se il biologico diventa solo un’etichetta, allora il sistema agro-industriale, produttivo e distributivo, alla fine lo tritura. Partono le monocolture per il puro business (che, anche se biologiche, non sono così sostenibili in termini di biodiversità), si spreca come si spreca in modo “convenzionale”, il cibo si trasforma in commodity (che cosa erano i prodotti sequestrati dall’operazione Gatto con gli stivali? Commmodities, semplici merci, in quantità industriali). Si perdono di vista il fine nobile di queste produzioni e anche le loro utilità sociale ed ecologica. Tant’è vero che gli stessi appartenenti al movimento del biologico cominciano a distinguere tra coloro che ci credono davvero e i “convertiti”: quelli che l’hanno fatto per opportunità economica senza sposare realmente il modello di un’agricoltura in grado di cambiare il paradigma ormai “convenzionale”. Ovvero una nuova agricoltura ecologica e multifunzionale, che tutela i nostri beni comuni quali i terreni, la biodiversità, l’ambiente e i paesaggi.

Insomma, se il biologico non si accompagna alla filiera corta, alla vendita diretta, alle economie locali, la sua portata si riduce notevolmente e in più si rischiano le truffe. Tra l’altro le economie locali permettono di contenere i costi, e non è un caso che le forme alternative di distribuzione e vendita diretta in Europa siano state fortemente incrementate proprio dal movimento del biologico, che ha fatto grandi cose da questo punto di vista. Però appena si cresce di scala produttiva e distributiva si rischia di perdere di vista l’obiettivo. Lo scandalo appena occorso è lì a dimostrarlo: oltre 3000 tonnellate di alimenti importate da uno Stato all’altro non sono cibo locale, non sono agricoltura ecologica e multifunzionale, non sono filiera corta.

Ecco perché è più importante il paradigma, piuttosto che l’etichetta. Questa è utile nella misura in cui non mente, in cui racconta la produzione e i suoi valori, e da questo punto di vista forse il biologico deve ancora fare passi avanti, anche per quanto riguarda la certificazione. In un sistema come quello attuale la certificazione è purtroppo indispensabile appena si supera il livello della vendita diretta, basata su un rapporto di fiducia. Ma vanno tutelati i piccoli produttori: con le regole attuali, che sono le stesse anche per le medie e grandi aziende, la certificazione per loro è un grave costo in più, un carico burocratico che dopo 12 ore di lavoro nei campi non possono sbrigare da soli. Bisogna semplificare, permettere le certificazioni di gruppo (per associazioni e cooperative di piccoli produttori), introdurre sistemi di certificazione a garanzia partecipativa tra produttori e consumatori, senza terze parti, che sono già stati messi a punto e stanno danno ottimi risultati in Sud America.

Il Gatto con gli stivali rischia di farci parlare solo di etichette ma noi, per restare in tema di fiabe e cartoni animati, preferiamo parafrasare Jessica Rabbit: il biologico non è cattivo, è il sistema agro-industriale con la sua distribuzione che a volte lo disegnano così. Forse è necessario cambiare disegnatore e, anche in questo caso, come per ogni discorso inerente ciò che mangiamo, ricominciare tutto da due bellissime parole: cibo locale.

Carlo Petrini

da La Repubblica del 14 dicembre 2011

mercoledì 14 dicembre 2011

I panettoni artigianali non sono tutti uguali e non sempre sono venduti a prezzi esagerati


Pubblichiamo questa lettera spedita dal pasticcere  Francesco Manico  sulla questione  dei  prezzi dei panettoni a Milano.
Scrivo in merito al suo servizio “Re panettone” pubblicato il primo dicembre scorso sulle pagine del Corriere della Sera. Sono un artigiano pasticciere di Sesto San Giovanni. Da oltre 30 anni produco instancabilmente il mio panettone artigianale, con la convinzione di aver scelto le migliori materie prime e di aver adoperato tutta l’esperienza e la capacità accumulata in questi anni, per realizzare un prodotto che, a detta di migliaia di clienti italiani ed esteri, è inimitabile.
Ogni anno, a dicembre, mentre nel nostro laboratorio fervono le lavorazioni per la preparazione dei panettoni che proseguono senza sosta fino al 24 dicembre, non posso fare a meno di indignarmi per le notizie dei giornali che, pur celebrando il panettone, non riescono a cogliere ciò che davvero sta avvenendo nel mercato di questo prodotto.
Nel suo articolo, si fa espressamente un’equazione: il panettone artigianale costa di più perché la qualità è più alta. Cita quelli che sono i marchi più prestigiosi della tradizione dolciaria milanese, fornendo prezzi da capogiro. Ma mi permetta di confessarle che facendo questo compie almeno due errori: non è affatto detto che il prezzo fa la qualità, naturalmente partendo da certi livelli; inoltre chi può affermare che quei panettoni citati sono davvero artigianali?
Il tema è scottante. Perché un’analisi reale di alcuni dei prodotti più rinomati dimostrerebbe che quei panettoni hanno ben poco di artigianale, nonostante magari siano tra i più cari.
Mi permetto di segnalarle che il mio panettone, la cui artigianalità è stata certificata anche dai carabinieri del Nas, viene venduto al prezzo di 15 euro. I miei prodotti girano il mondo e sono sulle tavole di tanti milanesi. Eppure il suo prezzo, che remunera il nostro lavoro e paga le migliori materie prime presenti sul mercato, è inferiore di moltissimo rispetto a quelli citati.
La mia precisazione vuole essere uno sfogo verso un mercato che, a dispetto delle apparenze, non privilegia più la qualità, ma solamente i guadagni. Tuttavia ho voluto cogliere l’occasione per condividerlo con lei, sperando di averle fornito qualche elemento in più di giudizio per i suoi prossimi articoli.
Francesco Manico
Foto:Photos.com





l «Re panettone» si racconta

I maestri pasticceri: «Emozioni, no ai conservanti e vita breve»

È lui, è sempre lo stesso, ci piace per quello che è, eppure ha tante cose nuove da raccontarci. Lui è il panettone, nato dalla tradizione familiare natalizia (da cui il taglio a croce sulla crosta) divenuto prodotto dolciario emblematico di Milano con l'apertura dei forni voluta dalla Repubblica Cisalpina. A descriverlo è Stanislao Porzio, creatore di «Re Panettone», quarta rassegna dei migliori panettoni artigianali, sabato e domenica dalle 11 alle 19 all'ex-Ansaldo di via Bergognone 34: ingresso e assaggio libero per un pubblico che cresce ogni anno (10mila visitatori nel 2010) con i panettoni in vendita al prezzo di 19 euro/kg.

I 35 pasticceri vengono da tutta Italia: 13 dalla Lombardia, 5 dalla provincia di Milano, solo 2 dalla città. «Il panettone è una fatica immane, ci vogliono tre giorni per arrivare a prodotto finito», spiega Achille Zoia de «La boutique del dolce». «C'è la preparazione del lievito, che deve agire ben due volte, poi la sistemazione in forno e la cottura, a testa in giù». Orazio Parisi, classe 1939 («Vecchia Milano»), sottolinea l'importanza della materia prima: «Il lievito di qualità è difficile da trovare, ogni pasticcere se lo produce, ma c'è anche la mano e la sensibilità nell'impasto, che si acquisiscono con l'esperienza».

Vincenzo Santoro («Pasticceria Martesana»), 3.000 panettoni l'anno, è deciso: «No ai conservanti, la vita dei panettoni resti breve, e poi farli è una passione per me, nata negli anni 60 lavorando in un laboratorio allora celebre. Lì ho scoperto la magia del panettone». Alex Magri («Dolceccetera»), 33 anni, è il giovane dei maestri milanesi del panettone: «Sono orgoglioso di essere in vetrina assieme a molti che considero dei maestri. Da loro ho imparato ad apprezzare l'emozione unica del momento in cui il forno rivela il goloso risultato finale».
Alex Guzzi26 novembre 2011 | 16:35   Corriere della Sera

venerdì 2 dicembre 2011

BIO ITALIANO LEADER IN EUROPA

Un successo costruito anche grazie al boom
dei canali di distribuzione “alternativi”



 Congresso Federale AIAB, Milano 30 novembre-4 dicembre 2011

Degli oltre 9 milioni di ettari coltivati a bio in Europa, l’Italia copre il 12%, 1.113.742 ettari (+0,6% rispetto
al 2009). L’Italia è leader in un testa a testa con la Spagna, mantenendosi al primo posto per la coltivazione
di ortaggi biologici (la superficie coltivata è otto volte superiore a quella spagnola), cereali, agrumi, uva (due
volte quella francese) e olive, ma portandosi al secondo posto dopo la Spagna per il riso.
L’Italia ha la leadership in Europa anche per numero di operatori nel biologico, nonostante siano diminuiti
dell’1,7% rispetto al 2009, portandosi a 47.663 unità, di cui 38.679 produttori esclusivi; 5.592 preparatori
(comprese le aziende che effettuano attività di vendita al dettaglio); 3.128 che effettuano sia attività di produzione che di trasformazione; 44 importatori esclusivi; 220 importatori che effettuano anche attività di produzione o trasformazione, sulla base dei dati Sinab.
La Sicilia seguita dalla Calabria è tra le regioni con maggiore presenza di aziende agricole biologiche, confermando la loro egemonia in termini di produzione. Mentre per il numero di aziende di trasformazione impegnate nel settore, la leadership spetta all'Emilia Romagna; in ogni caso, oltre un terzo delle aziende di trasformazione si trova in Emilia Romagna, Veneto e Lombardia. Infine, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto sono rappresentative per numero di importatori esclusivamente dediti al settore biologico. Il principale orientamento produttivo è la cerealicoltura. Un'ampia percentuale è rappresentata da foraggi, prati e pascoli. Seguono, in ordine di importanza, la superfici investite a olivicoltura e a viticoltura. Per quanto riguarda le produzioni animali si è verificato un aumento del numero di capi per quasi tutti gli allevamenti rispetto allo scorso anno.
Nel 2009 l’Italia si è collocata al quinto posto nella graduatoria mondiale per quanto riguarda le vendite
in valore, con 3 miliardi di euro, dopo gli Stati Uniti con oltre 17 miliardi di dollari, Germania, Francia e Regno
Unito. I consumi di alimenti biologici in Italia rappresentano una quota attorno al 2% sul totale della spesa
alimentare, per un valore stimato di poco meno di 3 miliardi di euro.

Il mercato interno, da molti anni, registra una crescita dei consumi domestici di biologico, secondo quanto
emerge dal Panel famiglie Ismea/Nielsen: l’incremento della spesa domestica in prodotti biologici confezionati
è stata dell’11,6% in valore, percentuale più elevata degli ultimi otto anni; per i prodotto bio sfusi (dati Ismea
per la sola ortofrutta fresca), l'incremento è invece stato più ridotto (+8,1%). Peraltro tale andamento positivo,che si protrae ormai dal 2005, diventa di particolare rilievo rapportato al trend dei consumi alimentari nel complesso,
registrato nel 2010, che è risultato, invece, lievemente negativo, con una contrazione dello 0,5%. Prevalente
nel Nord Italia, con oltre il 70% degli acquisti in valore, il consumo di prodotti bio registra i maggiori
incrementi nel 2010 nel Nord Est e nel Mezzogiorno.
Ortofrutta, prodotti lattiero-caseari e alimenti per la prima colazione si confermano anche nel 2010 le referenzepiù acquistate dai consumatori, incidendo nel complesso per oltre il 54% sul totale degli acquisti bio nel 2010 (fonte Ismea). Nel dettaglio, l'ortofrutta ha un peso sul totale dei consumi domestici biologici italiani del 21,7%, il comparto cereali e derivati del 16%, l'olio del 4,3%, il lattiero-caseario del 18,6%, le uova dell’ 8,4%.

L'aumento dei consumi si registra anche nella GDO (Grande Distribuzione Organizzata) al punto che, a partire
dal 2009, si rileva una crescita delle vendite di prodotti bio soprattutto negli ipermercati. Stanno crescendo
molto anche i negozi biologici tradizionali e specializzati con un incremento delle vendite del +30% rispetto al
2009, dato interessante perché conferma la grande fiducia accordata dai consumatori. Tale andamento potrebbe confermarsi anche nel 2011.
Analogo trend si riscontra per la vendita diretta degli agricoltori nella propria fattoria o nei mercati settimanali,
che ha visto uno sviluppo positivo: 2.421 coltivatori mettono in vendita i loro prodotti direttamente, un numero
in crescita (più che raddoppiato dal 2005) e che probabilmente è sottostimato per la difficoltà di reperire i dati
dalle realtà locali di piccoli produttori bio.

Più in generale, negli ultimi sei anni i canali di distribuzione alternativi sono cresciuti a un ritmo così vertiginoso
da essersi accaparrati una quota di mercato che al Nord Est e al Centro si attesta al 30% delle vendite,
al Nord Ovest al 21% e al Sud al 19%, per una media nazionale del 25%. I gruppi di acquisto solidale
hanno visto un incremento del 234%, lo spaccio in azienda del 102%, i mercatini bio del 20%, l’e commerce del 38%, i consumi extra-domestici del 44%, l’agriturismo del 62% e le mense scolastiche del 35%.
Nelle varie tipologie di sistemi alternativi di distribuzione di prodotti biologici, i gruppi di acquisto solidale (GAS) si sono rivelati i più dinamici registrando, in trend evolutivo di sei anni (2005-2010), un incremento pari al 234%. Dalla 17a edizione dell'annuario del biologico Bio Bank risulta che i GAS sono passati nei soli ultimi tre anni da 479 gruppi, rilevati nel 2008, agli attuali 742 (+55%) non considerando quelli non ufficiali. E’ confermata anche la loro distribuzione geografica prevalentemente al nord, dove si trova il 60% dei gas italiani, a seguire il 28% al centro e circa il 12% dei GAS al sud e nelle isole.
Cresce anche, del 25%, la vendita diretta in azienda. Le realtà che nel 2008 avevano spaccio aziendale
erano 1.943 e sono passate alle attuali 2.421; la crescita anche per questo canale, è pari al 102% se l'osservazione è retroattiva al 2005.
Lo stesso andamento positivo si riscontra anche per il canale dei mercatini bio, che registra un incremento
del 7% (2008/2010) e del 20% (dal 2005).
Alternativo e in crescita è anche il canale virtuale dell’e-commerce, che segna un +38% (da 110 siti Internet
di prodotti bio a 152).
Rientrano a pieno titolo nei canali alternativi di distribuzione/consumo di prodotti bio anche quelli extra-domestici quali i ristoranti che valorizzano la cucina biologica e che da 199 sono passati a 246 locali, registrando un incremento del 24% (2008/2010) e di ben 44% in sei anni, escludendo l'agriturismo che invece in sei anni ha registrato un incremento pari al 62%. Anche le mense scolastiche, che nel loro capitolato prevedono prodotti biologici, segnano nell'ultimo triennio un incremento del 10% (da 791 a 872) e del 35% (dal 2005).
Nel biologico, l'Italia nasce come Paese esportatore e la produzione esportata rappresenta tuttora almeno
il 45% del totale delle vendite. In particolare ortofrutta e prodotti tipici italiani sono l'asse portante dell'export
bio. I mercati principali sono Germania, Gran Bretagna e Francia in Europa, USA e Giappone sono i Paesi terzi consolidati, mentre Cina, Australia, America Latina (in particolare Brasile e Argentina) sono i mercati emergenti extra-europei.


fonte:  www.aiab.it