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martedì 23 agosto 2011

Il cibo viene sprecato in ogni fase della produzione e del consumo: in Europa fino a 115 kg a testa all'anno. Il Parlamento UE cerca soluzioni



Il 22 giugno l’onorevole Salvatore Caronna (gruppo socialisti e democratici) ha presentato alla Commissione per l’Agricoltura e lo sviluppo rurale del Parlamento Europeo la sua relazione “Evitare lo spreco di alimenti: strategie per migliorare l'efficienza della catena alimentare nell'UE”, in vista di una risoluzione dell’Assemblea.
Lo spreco alimentare ha risvolti negativi di ambito non solo etico, ma anche economico, ambientale, sociale, nutrizionale e sanitario. Perciò gli eurodeputati chiedono alla Commissione europea di proclamare il 2013 “Anno europeo contro lo spreco alimentare”.
Secondo alcuni dati, lo spreco di cibo a livello globale sarebbe aumentato, tra il 1974 e oggi, quasi del 50%. Gli sprechi avvengono nei campi agricoli, nelle industrie di trasformazione, nelle imprese di distribuzione e nelle case dei consumatori.
Lo scarto di cibo pienamente commestibile ha luogo in tutte le fasi della filiera: dalle perdite nella raccolta e stoccaggio, al trasporto incondizioni poco sicure, agli errori di imballaggio, fino alle cattive abitudini dei consumatori nell’acquisto e utilizzo dei prodotti alimentari.
Nei paesi industrializzati lo spreco è prevalente nelle ultime fasi, della distribuzione e del consumo, si ritiene a causa della sovrabbondanza di prodotto.
Viceversa nei paesi in via di sviluppo, dove le perdite avvengono nelle fasi iniziali, per difetto di idonee tecniche agricole, sistemi e infrastrutture di trasporto e di stoccaggio (come, per esempio, la catena del freddo).
Secondo dati FAO,[1] i cittadini europei e nordamericani sprecano a testa tra i 95 e i 115 kg di cibo all’anno, pro-capite, contro i 6-11 kg dell’Africa sub sahariana.
La produzione annuale di rifiuti alimentari nei 27 Stati membri UE è di circa 179 kg pro-capite (89 milioni di tonnellate), con un ulteriore costo ambientale stimato in 170 milioni di tonnellate/anno di emissioni di CO2.[2]
In Europa oltre 79 milioni di persone, il 15% dei cittadini, vivono ancora al di sotto del livello di povertà (secondo i parametri UE: vale a dire che il loro reddito è inferiore al 60% del reddito medio del paese ove risiedono).
Nel mondo, secondo gli studi della FAO, il previsto aumento della popolazione (dai 7 miliardi attuali ai 9) comporterà l’esigenza di incrementare le produzioni alimentari in misura del 70% entro il 2050.
L’agricoltura può svolgere un ruolo fondamentale nella lotta contro lo spreco alimentare. Offrire sostegno ai paesi in via di sviluppo per migliorare l’efficienza delle loro filiere agroalimentari può giovare non solo in via diretta alle economie locali e alla crescita sostenibile di questi territori ma anche, indirettamente, agli equilibri del commercio mondiale dei prodotti agricoli e alla ridistribuzione delle risorse naturali.
Di conseguenza, gli eurodeputati invitano la Commissione a presentare una proposta legislativa che definisca lo “spreco alimentare”[3] e includa anche i rifiuti alimentari di origine agricola. Chiede poi di individuare gli strumenti e le azioni per stimolare un maggiore coinvolgimento delle imprese agroalimentari, dei mercati all’ingrosso, dei negozi, delle catene distributive, delle mense e della ristorazione pubblica e privata nelle pratiche anti-spreco.
Chiedono alla Commissione, e anche agli Stati membri, di “sensibilizzare l’opinione pubblica sulle cause e conseguenze dello spreco alimentare e sulle modalità per ridurlo, promuovendo una cultura scientifica e civile orientata ai principi della sostenibilità e solidarietà”; di incoraggiare e sostenere le iniziative dirette a incentivare la produzione sostenibile su piccola e media scala legata ai mercati e ai consumi locali e regionali.
Esprimono sostegno alle iniziative virtuose di raccolta e distribuzione ai non abbienti di cibi talvolta destinati a rifiuto proprio in quanto prossimi alla scadenza o danneggiati, come ilBanco Alimentare.
Infine, la Commissione dovrebbe valutare e stimolare le misure atte a ridurre gli sprechi alimentari a monte, per esempio l’etichettatura con doppia scadenza (commerciale e di consumo), le vendite scontate di prodotti in scadenza o danneggiati.

Dario Dongo con la collaborazione di Juliette Turpeau      
foto: Photos.com






fonte: www.ilfattoalimentare.it

lunedì 1 agosto 2011

BIOGAS: L'ENERGIA CHE MANGIA LE CAMPAGNE

Agricoltura industriale. Riflettiamo sull’ossimoro. In suo nome, l’uomo ha pensato di poter produrre il cibo senza contadini, finendo con l’estrometterli dalle campagne. Oggi siamo addirittura arrivati all’idea che possano esserci campi coltivati senza produrre alimenti: agricoltura senza cibo. Agricoltura che, se si basa soltanto sul profitto e sulle speculazioni, riesce a rendere cattivo tutto ciò che può essere buono: il cibo, i terreni fertili (che sono sempre meno), ma anche l’energia pulita e rinnovabile. Come il fotovoltaico, come il biogas.
S’è già parlato di come l’energia fotovoltaica possa diventare una macchina mangia-terreni e mangia-cibo. Se i pannelli fotovoltaici sono posati direttamente a terra e per grandi estensioni essi tolgono spazi alla produzione alimentare e desertificano i suoli fino a renderli inservibili. Allora bisogna dirlo chiaro: sì al fotovoltaico, ma sui tetti, nelle cave dismesse, lungo le strade. No a quello sul terreno libero.
Adesso poi è il momento delle centrali a biogas che sfruttano le biomasse, vale a dire liquami zootecnici, sfalci e altri vegetali. Questi materiali si mettono in un digestore, qui si genera gas che serve a produrre energia elettrica e ciò che avanza – il “digestato” - adeguatamente trattato poi può essere utilizzato come ammendante per i terreni. Questi impianti sarebbero ideali per smaltire liquami (problema annoso di chi fa allevamento) e altri rifiuti biologici, integrando il reddito con una produzione di energia che può essere utilizzata in azienda o venduta. Se sono piccoli o ben calibrati rispetto al sistema chiuso dell’azienda agricola funzionano e sono una benedizione - esattamente come può fare il fotovoltaico sul tetto di un capannone o di una stalla. Ma se c’è di mezzo il business, se si fanno sotto gli investitori che fiutano affari e a cui non importa che l’agricoltura produca cibo e che lo faccia bene, allora il biogas può diventare una maledizione. Sta già succedendo in molte zone della Pianura Padana, soprattutto laddove ci sono forti concentrazioni di allevamenti intensivi. È una cosa che stanno denunciando alcune associazioni ambientaliste a livello locale e per esempio da Slow Food Cremona mi segnalano che nella loro provincia ormai la situazione è sfuggita al controllo. Tant’è vero che hanno chiesto alla Provincia una moratoria sull’installazione e autorizzazione di nuove centrali a biogas.
Che succede? Molti agricoltori, stremati dalla crisi generalizzata del settore, si trasformano in produttori di energia, smettendo di fare cibo. In pratica si limitano a coltivare mais in maniera intensiva per farlo “digerire” dagli impianti a biogas. C’è anche chi lo fa solo in parte, ma sta di fatto che tutto quel mais non sarà mangiato dagli animali e quindi indirettamente neanche dagli umani. Gli investitori li aiutano, a volte li sfruttano. Esistono soccide in cui gli agricoltori sono pagati da chi ha costruito l’impianto per coltivare mais: sono diventati degli operai del settore energia, altro che contadini. Tutto è cominciato nel 2008 con la finanziaria che prevedeva un nuovo certificato verde 'agricolo' per la produzione di energia elettrica con impianti di biogas alimentati da biomasse. Impianti “piccoli”, di potenza elettrica non superiore a 1 Megawatt. Ma 1 Mw è tanto: ciò ha incentivato il business, perché a chi produce viene riconosciuta una tariffa di 28 cent/kWh, circa tre volte quanto si paga per l’energia prodotta “normalmente”. Ecco allora che il sistema degli incentivi, cui si uniscono quelli europei per la produzione di mais, ha fatto sì che convenga costruire impianti grandi e costosi (anche 4 milioni di Euro), che posso essere ammortizzati in pochi anni. Soltanto nel cremonese nel 2007 c’erano 5 impianti autorizzati, oggi sono 130. E lì oggi si stima che il 25% delle terre coltivate sia a mais per biogas. In tutta la Lombardia si prevede che entro il 2013 dovrebbero esserci 500 impianti. Ci sarebbe da riflettere su quante volte un cittadino che versa anche le tasse arrivi a pagare quest’energia “pulita”, ma l’emergenza è di altro tipo: così si minacciano l’ambiente e l’agricoltura stessa.
Primo e lapalissiano: si smette di produrre cibo per produrre energia. Secondo: la monocoltura intensiva del mais è deleteria per i terreni perché deve fare largo uso di concimi chimici e consuma tantissima acqua, prelevata da falde acquifere sempre più povere e inquinate. Senza rotazioni sui terreni si compromette la loro fertilità e si favorisce la diffusione di parassiti come la diabrotica, da eliminare con un’ulteriore aggiunta di antiparassitari. Se il mais non è per uso alimentare, poi, sarà più facile mettere due dosi di tutto invece di una, senza farsi tanti scrupoli. Terzo: chi produce energia coltivando mais può permettersi di pagare affitti dei terreni molto più alti, anche fino a 1500 euro per ettaro, il che crea una concorrenza sleale nei confronti di chi invece ne ha bisogno per l’allevamento. È lo stesso fenomeno che si è creato con i parchi fotovoltaici, dunque sta piovendo sul bagnato. A chi alleva servono terreni soprattutto per rientrare nella “direttiva nitrati”, che dovrebbe regolare lo smaltimento dei liquami in maniera sostenibile. Chiedete ai contadini e agli allevatori: i terreni non sono mai stati così costosi come oggi, e per un’azienda che già subisce i danni di un mercato drogato da speculazioni e imposizioni di prezzi bassi da parte del sistema distributivo può voler dire soltanto una cosa, la chiusura.
Ma andiamo avanti. Quarto: gli impianti stessi, quelli da 1 Mw, sono grandi strutture e per costruirle si consuma terreno agricolo sacrificandolo per sempre. Quinto: ci sono già le prime voci sulla nascita di un mercato nero di rifiuti biologici, come gli scarti dei macelli, venduti illegalmente per fare biogas. Non andrebbero mai utilizzati come biomasse, perché ciò che avanza dalla “digestione” poi viene sparso per i campi come ammendante e in questi casi oltre a inquinare potrebbe anche diffondere malattie.
Il problema è la scala. Diciamo chiaramente che in sé il biogas da biomasse non avrebbe nessun difetto. Ma se è realizzato a fini speculativi ed è sovradimensionato, se fa produrre mais al solo scopo di metterlo nell’impianto, se fa alzare i prezzi del terreno, lo consuma e lo inquina, allora bisogna dire no, forte e chiaro. Da questo punto di vista sarà bene che le amministrazioni (comunali per impianti piccoli, provinciali per quelli più grandi) comincino a valutare i fini reali degli impianti prima di concedere autorizzazioni, e sicuramente questi problemi andranno affrontati e debellati con la nuova PAC, la politica agricola comune, che si è iniziata a discutere a Bruxelles.
Da un punto di vista umano capisco gli agricoltori che hanno intravisto con il biogas un modo per risalire la china di un’agricoltura industriale sempre più in crisi. Ma sono sicuro che ci sono altri modi di fare agricoltura, più puliti, diversificati, che puntano alla vera qualità. Questa agricoltura può essere molto remunerativa e dare futuro ai giovani, mentre è soprattutto quella di stampo industriale che sta collassando. Inoltre, prima o poi gli incentivi finiranno. Il biogas con grandi impianti è una pezza sporca che alcuni stanno mettendo alla nostra agricoltura malata, ottenendo l’effetto di darle così il colpo di grazia. Sarà molto difficile tornare indietro: i terreni fertili non si recuperano, le falde s’inquinano, la salubrità sparisce, chi fa buona agricoltura è costretto a smettere a causa di una concorrenza spietata e insostenibile. Agricoltura industriale, che ossimoro.

Di Carlo Petrini
Tratto da La Repubblica 28/7/11